Pendici del monte Giove,
notte del solstizio d’estate, anno 1673.
«Isotta, non
allontanarti troppo! Vedi quel grosso albero di noce? Laggiù si
riuniscono le streghe, per preparare i loro strani intrugli. Fai
attenzione!». Me lo diceva sempre la mamma, ogni anno: stai attenta,
non avvicinarti a quell’albero, vieni con noi a raccogliere le erbe
sulla sponda del fiume, dove ci sono le torce e il babbo può
proteggerti… Ma ormai avevo dieci anni, e quella notte non vedevo
l’ora di sfidare tutti i poteri malefici che terrorizzavano i miei
genitori e i loro vicini, per scoprire cosa accadeva sotto
quell’albero imponente.
Gli abitanti del borgo e
i contadini dei dintorni uscivano di casa quando ancora, verso ovest,
si intuiva il chiarore degli ultimi raggi di sole. Poi sciamavano
lungo i sentieri e sui bordi dei fossi, divisi in piccoli gruppi dove
non mancavano mai fiaccole accese in mano, coltelli affilati alla
cintola e rosari al collo. Perché nella notte tra il 23 e il 24
giugno ogni cosa poteva accadere. Il curato della pieve di San
Michele aveva tuonato più volte dal pulpito contro quelle credenze
pagane: «Lo sposalizio del sole con la luna? Immani stupidità! Le
streghe? Io stesso le catturerò e consegnerò al tribunale del
Sant’Uffizio!». Ma ogni anno, durante il solstizio, le imposte
della canonica erano sbarrate, e c’era chi giurava di aver visto il
sacerdote montare la guardia nelle sue povere stanze con un
crocifisso in mano, recitando preghiere a San Giovanni. È vero,
tutta la comunità, il 24 giugno, festeggiava la nascita del
Battista: la religione però non aveva sconfitto riti e tradizioni
che da secoli e secoli permeavano gli animi della gente, di
generazione in generazione. Così, come vi raccontavo prima, i miei
genitori e i nostri vicini uscivano sul far della sera per
raccogliere erbe che definivano magiche! Fosse grazie
all’intercessione salvifica di San Giovanni o a qualche oscuro
potere stregonesco, con queste misticanze si preparava un’acqua che
aveva guarito più di un ammalato. Iperico, artemisia, sambuco,
verbena, vischio, biancospino, corbezzolo, ruta, rosmarino: nomi che
a noi bambini sembravano di folletti maligni e dispettosi, sempre
pronti a fare linguacce da dietro gli alberi o a rubarci l’orsetto
di pezza da sotto le coperte. All’alba c’era anche il rito della
rugiada, stillata copiosamente in questa notte miracolosa. Filippo,
il mezzadro del podere accanto al nostro, la raccoglieva rotolando un
panno sull’erba; poi, strizzandolo, si versava quelle goccioline
sulla testa: credeva che facessero ricrescere i due ciuffi di capelli
che gli erano rimasti! E mio babbo lo prendeva in giro: «Potrà
anche succedere di tutto per San Giovanni, ma ogni anno sei sempre
più spelacchiato!».
Insomma, i motivi per
avere paura, quella sera, non mancavano. Ma nel mio cuore di bimba mi
aggrappavo a tutto il coraggio che regala la curiosità della
scoperta e dell’avventura. Poco lontano da me si era formato un
crocchio di persone intorno ad un cespuglio: i miei genitori, alla
luce delle torce appena accese, discutevano animatamente con altri
adulti riguardo a quale tipo di erba si trovassero davanti. Al di là
del fioco bagliore emanato da quel gruppetto regnava l’oscurità
incipiente della sera. Il fusto e i rami del grande noce si
stagliavano come ombre cariche di presagi contro quel cielo non
ancora buio; ai piedi dell’albero invece le tenebre avvolgevano
ogni cosa, e nulla sembrava muoversi.
Quella pianta spettrale
distava poche decine di metri da me; i miei genitori, presi dal
dibattito, si disinteressavano del resto; era il momento! Presi a
correre, con il cuore all’impazzata per il timore dell’ignoto. In
pochi interminabili istanti fui alla base del noce. Mi fermai, con
tutti i sensi in allerta: nulla. Le streghe se ne erano già andate,
o forse non erano mai esistite, chissà! L’avrei detto alla mamma:
«Sono andata al noce e non c’era nessuno! Sei una credulona!».
Ma mentre mi avviavo
ormai tranquilla verso i miei genitori, sentii un lieve rumore
provenire dal retro del tronco, che era nascosto alla mia vista: “toc
toc toc”. Di nuovo i battiti del mio cuoricino si fecero
accelerati, il respiro mozzo, le gambe incerte: piano piano, con
passo leggero, girai intorno all’albero. Ecco, c’era una scala a
pioli appoggiata al fusto! Alzai lo sguardo: in cima alla scala si
trovava una figura avvolta dall’oscurità e vestita di nero, che
raccoglieva le noci ancora verdi e immature e le lasciava cadere in
un cestino di paglia: “toc toc toc”. Che brividi! Era certamente
una strega! Lanciai un gridolino di stupore misto a terrore e
istintivamente feci qualche passo indietro. Quell’ombra arrampicata
sull’albero si accorse di me e, strepitando, perse l’equilibrio.
La scala si sbilanciò e con un tonfo cadde ai miei piedi, sull’erba
soffice… il curato di San Michele!
Ci fissammo per un
attimo. Aveva un’espressione indefinibile sul volto, un’espressione
che oggi, a distanza di tanto tempo, ricordo ancora con chiarezza: se
fossero paura o allegria, appagamento o delusione, è difficile
dirlo.
Scappai e tornai a
perdifiato dai miei genitori. Nessuno si era accorto di nulla, tanto
la discussione si era fatta calorosa, e mi guardai bene dal
raccontare qualcosa.
Soltanto qualche anno
dopo scoprii che le streghe utilizzavano le noci colte ancora acerbe
la notte di San Giovanni per preparare un liquore dalle incredibili
proprietà benefiche, il nocino.
E mi resi conto che
alcune tradizioni, sia che le neghiamo sia che le accogliamo, sono un
fuoco che non può essere spento.
Nicola Leoni