mercoledì 12 ottobre 2016

L'Uso dei semi in un clima che cambia

Dopo una rigogliosa estate, in ottobre la natura si prepara al lungo sonno invernale.
Il mese tradizionalmente associato alla raccolta di funghi e castagne, è però un tempo ancora propizio per il lavoro dei campi.
Nella prima metà del mese, in fase di luna crescente, i contadini effettuano le semine di ravanelli, carote, cavoli e lattuga, sia in semenzaio sia in piena terra, e procedono al trapianto delle erbe aromatiche e alla loro moltiplicazione. Altre erbe, come alloro, origano, timo, prezzemolo, rosmarino e salvia vengono invece raccolte e poste ad essiccare.
In fase di luna calante, corrispondente alla seconda metà del mese, gli agricoltori rimuoveranno le erbacce e le piantine giunte alla fine del loro ciclo vegetativo, preparando i campi alla nuova semina, mentre semineranno indivia, radicchio, fave, cavolo verza, valeriana, spinaci e piselli.
In ottobre quindi, attraverso la semina, si gettano le basi del futuro raccolto.
Anche amarMET, raccogliendo l'invito di Fattorie Aperte in occasione della Giornata dell'alimentazione in fattoria intitolata "Il Clima sta cambiando. L'Alimentazione e l'Agricoltura anche", propone una riflessione sui semi e sul loro utilizzo, con un'attenzione particolare al territorio di Santarcangelo di Romagna e all'incidenza dei mutamenti climatici sul fiume Uso e sulla sua vegetazione spondale: una passeggiata di riconoscimento e raccolta, guidata da esperti del settore, permetterà ai partecipanti di maturare piena consapevolezza sull'argomento.  
Anche i più piccoli saranno invitati, attraverso un laboratorio mirato alla creazione di un piccolo semenzaio, a prendere coscienza dell'importanza dei semi e del loro impiego in accordo alla stagione.
Con la speranza che i semi della terra possano trasformarsi anche in semi dell'intelletto.


 


giovedì 23 giugno 2016

Isotta e il grande noce. La notte di San Giovanni nel lontano 1673.

Pendici del monte Giove, notte del solstizio d’estate, anno 1673.
«Isotta, non allontanarti troppo! Vedi quel grosso albero di noce? Laggiù si riuniscono le streghe, per preparare i loro strani intrugli. Fai attenzione!». Me lo diceva sempre la mamma, ogni anno: stai attenta, non avvicinarti a quell’albero, vieni con noi a raccogliere le erbe sulla sponda del fiume, dove ci sono le torce e il babbo può proteggerti… Ma ormai avevo dieci anni, e quella notte non vedevo l’ora di sfidare tutti i poteri malefici che terrorizzavano i miei genitori e i loro vicini, per scoprire cosa accadeva sotto quell’albero imponente.
Gli abitanti del borgo e i contadini dei dintorni uscivano di casa quando ancora, verso ovest, si intuiva il chiarore degli ultimi raggi di sole. Poi sciamavano lungo i sentieri e sui bordi dei fossi, divisi in piccoli gruppi dove non mancavano mai fiaccole accese in mano, coltelli affilati alla cintola e rosari al collo. Perché nella notte tra il 23 e il 24 giugno ogni cosa poteva accadere. Il curato della pieve di San Michele aveva tuonato più volte dal pulpito contro quelle credenze pagane: «Lo sposalizio del sole con la luna? Immani stupidità! Le streghe? Io stesso le catturerò e consegnerò al tribunale del Sant’Uffizio!». Ma ogni anno, durante il solstizio, le imposte della canonica erano sbarrate, e c’era chi giurava di aver visto il sacerdote montare la guardia nelle sue povere stanze con un crocifisso in mano, recitando preghiere a San Giovanni. È vero, tutta la comunità, il 24 giugno, festeggiava la nascita del Battista: la religione però non aveva sconfitto riti e tradizioni che da secoli e secoli permeavano gli animi della gente, di generazione in generazione. Così, come vi raccontavo prima, i miei genitori e i nostri vicini uscivano sul far della sera per raccogliere erbe che definivano magiche! Fosse grazie all’intercessione salvifica di San Giovanni o a qualche oscuro potere stregonesco, con queste misticanze si preparava un’acqua che aveva guarito più di un ammalato. Iperico, artemisia, sambuco, verbena, vischio, biancospino, corbezzolo, ruta, rosmarino: nomi che a noi bambini sembravano di folletti maligni e dispettosi, sempre pronti a fare linguacce da dietro gli alberi o a rubarci l’orsetto di pezza da sotto le coperte. All’alba c’era anche il rito della rugiada, stillata copiosamente in questa notte miracolosa. Filippo, il mezzadro del podere accanto al nostro, la raccoglieva rotolando un panno sull’erba; poi, strizzandolo, si versava quelle goccioline sulla testa: credeva che facessero ricrescere i due ciuffi di capelli che gli erano rimasti! E mio babbo lo prendeva in giro: «Potrà anche succedere di tutto per San Giovanni, ma ogni anno sei sempre più spelacchiato!».
Insomma, i motivi per avere paura, quella sera, non mancavano. Ma nel mio cuore di bimba mi aggrappavo a tutto il coraggio che regala la curiosità della scoperta e dell’avventura. Poco lontano da me si era formato un crocchio di persone intorno ad un cespuglio: i miei genitori, alla luce delle torce appena accese, discutevano animatamente con altri adulti riguardo a quale tipo di erba si trovassero davanti. Al di là del fioco bagliore emanato da quel gruppetto regnava l’oscurità incipiente della sera. Il fusto e i rami del grande noce si stagliavano come ombre cariche di presagi contro quel cielo non ancora buio; ai piedi dell’albero invece le tenebre avvolgevano ogni cosa, e nulla sembrava muoversi.
Quella pianta spettrale distava poche decine di metri da me; i miei genitori, presi dal dibattito, si disinteressavano del resto; era il momento! Presi a correre, con il cuore all’impazzata per il timore dell’ignoto. In pochi interminabili istanti fui alla base del noce. Mi fermai, con tutti i sensi in allerta: nulla. Le streghe se ne erano già andate, o forse non erano mai esistite, chissà! L’avrei detto alla mamma: «Sono andata al noce e non c’era nessuno! Sei una credulona!».
Ma mentre mi avviavo ormai tranquilla verso i miei genitori, sentii un lieve rumore provenire dal retro del tronco, che era nascosto alla mia vista: “toc toc toc”. Di nuovo i battiti del mio cuoricino si fecero accelerati, il respiro mozzo, le gambe incerte: piano piano, con passo leggero, girai intorno all’albero. Ecco, c’era una scala a pioli appoggiata al fusto! Alzai lo sguardo: in cima alla scala si trovava una figura avvolta dall’oscurità e vestita di nero, che raccoglieva le noci ancora verdi e immature e le lasciava cadere in un cestino di paglia: “toc toc toc”. Che brividi! Era certamente una strega! Lanciai un gridolino di stupore misto a terrore e istintivamente feci qualche passo indietro. Quell’ombra arrampicata sull’albero si accorse di me e, strepitando, perse l’equilibrio. La scala si sbilanciò e con un tonfo cadde ai miei piedi, sull’erba soffice… il curato di San Michele!
Ci fissammo per un attimo. Aveva un’espressione indefinibile sul volto, un’espressione che oggi, a distanza di tanto tempo, ricordo ancora con chiarezza: se fossero paura o allegria, appagamento o delusione, è difficile dirlo.
Scappai e tornai a perdifiato dai miei genitori. Nessuno si era accorto di nulla, tanto la discussione si era fatta calorosa, e mi guardai bene dal raccontare qualcosa.
Soltanto qualche anno dopo scoprii che le streghe utilizzavano le noci colte ancora acerbe la notte di San Giovanni per preparare un liquore dalle incredibili proprietà benefiche, il nocino.
E mi resi conto che alcune tradizioni, sia che le neghiamo sia che le accogliamo, sono un fuoco che non può essere spento. 

Nicola Leoni

 

lunedì 6 giugno 2016

Semi per la mente e semi per il cuore

Passeggiare sulla riva rigogliosa dell’Uso e avventurarsi nel folto di una vegetazione ancora selvaggia, modellata non dalla mano dell’uomo ma dall’impeto delle piene fluviali. Emozionarsi all’udire le note cristalline di una chitarra, fuse in mistica armonia con parole che inducono alla riflessione. E poi sedersi in cerchio sul prato soffice, in una limpida giornata di sole, per confrontarsi insieme su temi importanti per la vita del pianeta.
«Di maggio si dorme per assaggio» recita un antico adagio popolare, a significare che in questo periodo i lavori della terra necessitano più impegno di quello che il clima, ormai mite, indurrebbe negli uomini. Il Calendario dei contadini di fine XVIII secolo rammenta una serie di appuntamenti da non mancare, perché «chi dorme di maggio digiuna a settembre»: la tosatura degli ovini, la zappatura delle vigne, il taglio dei filari delle viti, la semina di vari tipi.
Il mese di maggio è una vera e propria festa per la semina: si gettano manciate di grani nei solchi tracciati dall’aratro, si sotterrano con amore filiale piccoli chicchi indifesi, nella convinzione che la fatica venga ripagata con abbondante frutto. Anche noi ragazzi di amarMET abbiamo provato, con l’umiltà, il confronto e il sorriso, a spargere tanti semi: semi per la mente e semi per il cuore.
Abbiamo provato a metterci in gioco e camminare insieme, in modo non solo simbolico.
Le tante persone presenti agli eventi, l’interesse suscitato dalle tematiche affrontate, il clima di partecipazione e condivisione ci hanno colmato di gioia e gratitudine.
Per questo motivo desideriamo mostrare la nostra profonda riconoscenza a tutti coloro che ci hanno sostenuto sotto ogni aspetto e ci hanno arricchito con le loro esperienze e il loro entusiasmo!
In particolare (in ordine sparso): Comune di Santarcangelo di Romagna, Fondazione Fo.Cu.S., prof.ssa Bruna Gumiero (Università di Bologna, Scuola di Scienze), arch. Federico Donelli, AIAF Associazione Italiana AgroForestazione, dj Anna la Rossa e Andrea Canella, La Ratatuia, Roberto Mercadini, Formazione Minima, agronomo Gioacchino Romagnoli, Arvaia Cooperativa di cittadini coltivatori biologici, Sportello Rete C.S.A. Rimini, Cristina Sedioli, Auser Rimini, Azienda agricola Il Fornaccio.
Ma soprattutto: un immenso grazie a tutti voi che avete partecipato alle nostre iniziative, adulti e bambini, giovani e meno giovani! Siete voi, con la vostra presenza e il vostro interesse, il cuore pulsante di amarMET.


domenica 15 maggio 2016

Agricoltura: da un passato di foresta ai semi del futuro

É trascorso qualche tempo dai fuochi di marzo. Il sole, giorno per giorno, allunga di qualche minuto la carezza dei propri raggi benevoli, donando luce e calore ai campi e infuocati tramonti alla meraviglia degli uomini.
Anche noi ragazzi di amarMET desideriamo festeggiare questa primavera rigogliosa, proponendo un percorso di ben tre giorni, dedicato al patrimonio del nostro territorio: un patrimonio fatto di paesaggio, tradizioni, natura, storia, ma soprattutto di persone che possono conoscere e conoscersi. Quelle persone siete tutti voi, che ci seguite con passione e che ci auguriamo possiate partecipare numerosi.

 

lunedì 11 aprile 2016

Al MET un nuovo vivaio per la comunità



Il cortile del Museo Etnografico è un luogo dell’anima: della memoria e insieme del presente, dei semi deposti oggi con amore e dei frutti che, con un sorriso compiaciuto, ci auguriamo di poter raccogliere domani. È uno spazio di condivisione e comunità, di festa e di fatica: la sede ideale per il vivaio di amarMET.
Su un prato che sfuma in campagna, dove il cortile sembra quasi abbracciare un grande campo, abbiamo dato inizio ad un’opera meditata e rimeditata per mesi, che costituirà uno dei fulcri portanti del nostro progetto, simbolo di ciò che desideriamo sia il MET anche in futuro. Un museo concepito come punto d’incontro e scambio culturale, come fucina di nuovi modelli per fare agricoltura, rispettando l’ambiente, l’integrità del paesaggio, le specie autoctone, i riti e i ritmi della tradizione.
Il vivaio, dalla caratteristica forma a mezzaluna, ha lo scopo di riprodurre piante da frutto attraverso portainnesti o semi, per favorire la diffusione e la propagazione di varietà arboree forestali ritenute autoctone.
La piantumazione dei portainnesti è avvenuta all’interno di un solco lungo circa dieci metri, con una sezione ad angolo retto di quaranta centimetri di lato, scavato interamente a mano.
Questo gesto, apparentemente semplice, nasconde una valenza profondissima. Una fatica affrontata insieme, con allegria, per raggiungere un obiettivo comune, fortifica i rapporti e riconduce la percezione del proprio tempo all’armonia con il naturale fluire delle cose. Mentre il sudore imperla la fronte e le braccia dolgono per lo sforzo, il ristoro è nel canto degli uccelli, nella lieve brezza che sfiora le fronde, nel sentirsi parte integrante di un ecosistema da preservare anche tramite il proprio lavoro.
Dopo aver mescolato il terriccio ottenuto dallo scavo con il fertile compost, abbiamo preparato  i portainnesti, cimandone chioma e apparato radicale per agevolarne la crescita vegetativa, abbiamo innaffiato le loro radici e infine li abbiamo messi a dimora.
La terra rimanente è stata utilizzata per richiudere il solco, premendola leggermente intorno ai portainnesti. A questi ultimi sono state legate delle canne, per fungere da tutori nella crescita delle piantine.
L’atto finale, che ha sancito la nascita del nuovo vivaio, è consistito nell’innaffiare abbondantemente il solco, affidando le piccole creature alla bontà del clima e alle cure amorevoli di ciascuno. Nella speranza che i fuochi di marzo, ardendo pochi giorni fa nel cortile antistante il museo, abbiano scacciato l’oscurità dell’inverno e assicurato un raccolto propizio.

lunedì 21 marzo 2016

Un filo rosso che attraversa i millenni



Ogni volta che i miei occhi si soffermano sul fuoco, penso al primo uomo che lo vide.
Quel giorno doveva esserci un cielo nero e minaccioso, l'aria era pesante e gonfia di un odore di umidità, il vento che soffiava da nord non prometteva nulla di buono. Il nostro antenato si strinse nelle spalle mentre cercava il suo riparo per la notte. D'improvviso un fulmine abbagliante divise quelle nuvole in due, un rombo assordante fece tremare tutto quanto. Quell'uomo chiuse gli occhi, strinse i denti, un gesto istintivo... poi, quando lì riaprì, quella luce che aveva attraversato il cielo si era posata sulla terra e la sua forza devastante aveva tagliato in due un albero robusto, facendolo schiantare al suolo. Lui ne ebbe paura, istintiva anch'essa.
Era un uomo come tutti gli altri, ma di tutti gli altri era più curioso. Si avvicinò. Pochi passi e non ebbe più bisogno di stringersi nelle spalle. Contemplò quel dono che il cielo aveva voluto offrirgli.
Ciò che videro i suoi occhi è esattamente ciò che vedono i miei.

Michele Vescio 

sabato 19 marzo 2016

«Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco» (Gustav Mahler)


Emettendo flebili bagliori rossastri le focarine esalano l’estremo respiro, mentre il vociare degli ultimi presenti diviene sommesso. I bimbi, colti dal sonno, tirano con le loro manine la giacca della mamma, perché è ora di andare a casa, a raggiungere l’orsetto di pezza sotto le coperte. C’è chi ha bevuto un Sangiovese di troppo: si trattiene, esita, attende che il mondo freni un poco il suo folle vorticare. La maggior parte delle persone ha già lasciato il cortile, la bocca dischiusa in un sorriso.
Un altro anniversario di San Giuseppe tramonta, facendo scivolare negli animi una sensazione agrodolce: la bella stagione è alle porte, l’aria per la prima volta profuma di primavera, ma è pur sempre finita una festa. Una festa di fuoco: nei bracieri fuoco bollente, vivido, scoppiettante; nei cuori quella scintilla che solo l’esperienza della tradizione può ancora alimentare.
La fiamma va spegnendosi sotto le teglie di terracotta, lasciando il posto alla cenere. Eppure, laggiù nei campi, i solchi dell’aratro ardono come scie di comete infuocate, l’impugnatura della falce è bollente, febbrilmente ansiosa di essere nuovamente stretta, i buoi fremono scalpitanti per tornare sotto il giogo. La tradizione è fuoco, vita vissuta e da vivere insieme: replicare gesti e costumi, immedesimarsi negli stati d’animo, comprendere che il nostro agire qui e oggi dipende anche dalla direzione che hanno intrapreso i nostri avi, sulle cui orme per secoli abbiamo camminato.
Non saranno le ceneri delle focarine a ricordarci una festa ormai trascorsa, immagini sbiadite e offuscate dal fumo del tempo: sarà il fuoco vivo che i nostri occhi hanno bevuto dalla loro fiamma ad ardere nel nostro cuore e a perpetuare ancora una volta la tradizione che esse rappresentano. 
Un grandissimo grazie da parte di tutto lo staff a coloro che ci hanno sostenuto e hanno reso possibile, con il loro lavoro e la loro disponibilità, la buona riuscita di questa festa dedicata a tutta la nostra comunità. E uno speciale ringraziamento a voi, che siete venuti a trovarci numerosissimi e a condividere il senso profondo del progetto amarMET. Continuate a seguirci, arrivederci al prossimo appuntamento!