giovedì 23 giugno 2016

Isotta e il grande noce. La notte di San Giovanni nel lontano 1673.

Pendici del monte Giove, notte del solstizio d’estate, anno 1673.
«Isotta, non allontanarti troppo! Vedi quel grosso albero di noce? Laggiù si riuniscono le streghe, per preparare i loro strani intrugli. Fai attenzione!». Me lo diceva sempre la mamma, ogni anno: stai attenta, non avvicinarti a quell’albero, vieni con noi a raccogliere le erbe sulla sponda del fiume, dove ci sono le torce e il babbo può proteggerti… Ma ormai avevo dieci anni, e quella notte non vedevo l’ora di sfidare tutti i poteri malefici che terrorizzavano i miei genitori e i loro vicini, per scoprire cosa accadeva sotto quell’albero imponente.
Gli abitanti del borgo e i contadini dei dintorni uscivano di casa quando ancora, verso ovest, si intuiva il chiarore degli ultimi raggi di sole. Poi sciamavano lungo i sentieri e sui bordi dei fossi, divisi in piccoli gruppi dove non mancavano mai fiaccole accese in mano, coltelli affilati alla cintola e rosari al collo. Perché nella notte tra il 23 e il 24 giugno ogni cosa poteva accadere. Il curato della pieve di San Michele aveva tuonato più volte dal pulpito contro quelle credenze pagane: «Lo sposalizio del sole con la luna? Immani stupidità! Le streghe? Io stesso le catturerò e consegnerò al tribunale del Sant’Uffizio!». Ma ogni anno, durante il solstizio, le imposte della canonica erano sbarrate, e c’era chi giurava di aver visto il sacerdote montare la guardia nelle sue povere stanze con un crocifisso in mano, recitando preghiere a San Giovanni. È vero, tutta la comunità, il 24 giugno, festeggiava la nascita del Battista: la religione però non aveva sconfitto riti e tradizioni che da secoli e secoli permeavano gli animi della gente, di generazione in generazione. Così, come vi raccontavo prima, i miei genitori e i nostri vicini uscivano sul far della sera per raccogliere erbe che definivano magiche! Fosse grazie all’intercessione salvifica di San Giovanni o a qualche oscuro potere stregonesco, con queste misticanze si preparava un’acqua che aveva guarito più di un ammalato. Iperico, artemisia, sambuco, verbena, vischio, biancospino, corbezzolo, ruta, rosmarino: nomi che a noi bambini sembravano di folletti maligni e dispettosi, sempre pronti a fare linguacce da dietro gli alberi o a rubarci l’orsetto di pezza da sotto le coperte. All’alba c’era anche il rito della rugiada, stillata copiosamente in questa notte miracolosa. Filippo, il mezzadro del podere accanto al nostro, la raccoglieva rotolando un panno sull’erba; poi, strizzandolo, si versava quelle goccioline sulla testa: credeva che facessero ricrescere i due ciuffi di capelli che gli erano rimasti! E mio babbo lo prendeva in giro: «Potrà anche succedere di tutto per San Giovanni, ma ogni anno sei sempre più spelacchiato!».
Insomma, i motivi per avere paura, quella sera, non mancavano. Ma nel mio cuore di bimba mi aggrappavo a tutto il coraggio che regala la curiosità della scoperta e dell’avventura. Poco lontano da me si era formato un crocchio di persone intorno ad un cespuglio: i miei genitori, alla luce delle torce appena accese, discutevano animatamente con altri adulti riguardo a quale tipo di erba si trovassero davanti. Al di là del fioco bagliore emanato da quel gruppetto regnava l’oscurità incipiente della sera. Il fusto e i rami del grande noce si stagliavano come ombre cariche di presagi contro quel cielo non ancora buio; ai piedi dell’albero invece le tenebre avvolgevano ogni cosa, e nulla sembrava muoversi.
Quella pianta spettrale distava poche decine di metri da me; i miei genitori, presi dal dibattito, si disinteressavano del resto; era il momento! Presi a correre, con il cuore all’impazzata per il timore dell’ignoto. In pochi interminabili istanti fui alla base del noce. Mi fermai, con tutti i sensi in allerta: nulla. Le streghe se ne erano già andate, o forse non erano mai esistite, chissà! L’avrei detto alla mamma: «Sono andata al noce e non c’era nessuno! Sei una credulona!».
Ma mentre mi avviavo ormai tranquilla verso i miei genitori, sentii un lieve rumore provenire dal retro del tronco, che era nascosto alla mia vista: “toc toc toc”. Di nuovo i battiti del mio cuoricino si fecero accelerati, il respiro mozzo, le gambe incerte: piano piano, con passo leggero, girai intorno all’albero. Ecco, c’era una scala a pioli appoggiata al fusto! Alzai lo sguardo: in cima alla scala si trovava una figura avvolta dall’oscurità e vestita di nero, che raccoglieva le noci ancora verdi e immature e le lasciava cadere in un cestino di paglia: “toc toc toc”. Che brividi! Era certamente una strega! Lanciai un gridolino di stupore misto a terrore e istintivamente feci qualche passo indietro. Quell’ombra arrampicata sull’albero si accorse di me e, strepitando, perse l’equilibrio. La scala si sbilanciò e con un tonfo cadde ai miei piedi, sull’erba soffice… il curato di San Michele!
Ci fissammo per un attimo. Aveva un’espressione indefinibile sul volto, un’espressione che oggi, a distanza di tanto tempo, ricordo ancora con chiarezza: se fossero paura o allegria, appagamento o delusione, è difficile dirlo.
Scappai e tornai a perdifiato dai miei genitori. Nessuno si era accorto di nulla, tanto la discussione si era fatta calorosa, e mi guardai bene dal raccontare qualcosa.
Soltanto qualche anno dopo scoprii che le streghe utilizzavano le noci colte ancora acerbe la notte di San Giovanni per preparare un liquore dalle incredibili proprietà benefiche, il nocino.
E mi resi conto che alcune tradizioni, sia che le neghiamo sia che le accogliamo, sono un fuoco che non può essere spento. 

Nicola Leoni

 

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